Carlo Ceresa, la dignità della semplice pasta umana
San Giovanni Bianco Articolo letto da 1.603 utenti - Pubblicato il 9 Marzo 2012Ci sono parole che si attaccano al destino di certi artisti e non se ne staccano più. Ho in mente quel che Longhi scrisse di Caravaggio, oppure Francesco Arcangeli del suo amato Ludovico Carracci. O gli aggettivi con cui Luciano Bellosi è planato su Duccio. Le parole che Giovanni Testori assegnò a Carlo ceresa sono certamente di quella categoria. Come sempre accade sono invenzioni linguistiche che si generano da un grande amore, che dà come esito anche una lucidità critica che nessuno strumento intellettuale riuscirebbe a restituire. Giovanni Testori aveva avuto il suo primo incontro con Carlo Ceresa all'inizio della sua parabola di critico. Era il 1953 ed era stato proprio Roberto Longhi a pubblicare sulla celebre rivista Paragone un saggio dell'allora giovane studioso milanese dedicato a Carlo Ceresa ritrattista, dopo che lo stesso Ceresa era stato tra i protagonisti della grande mostra milanese dei «Pittori della realtà».
Testori stabilisce subito una sorta di familiarità con l'artista, quasi si trattasse non di ragionarne in termini critici ma di rendergli visita a casa sua. Ed eccolo sfoderare parole come se davanti non avesse i quadri ma le persone che li popolano. Coglie nelle donne e negli uomini di Ceresa una «monumentalità urbana», dove urbano è sinonimo di «civile» e suggerisce un intrinseco senso di tolleranza e umanità. Infatti, precisava Testori, la monumentalità non è «ingrandimento parenetico, ma espansione libera della persona nel proprio ambiente». Ragioniamo su questa sequenza di termini, semplicemente perfetti. «Espansione» indica quella propensione dei personaggi ceresiani a non ritrarsi ma a venire come incontro a chi li guarda. «Libera» perché è un modo di porsi innato, proprio della loro indole. Un dato di natura. Infine «nel loro ambiente»: sono persone amiche del luogo che il Padreterno ha assegnato loro. C'è una complicità affettuosa tra le loro sagome e lo spazio in cui Ceresa le colloca. È sempre come se attorno a loro ci fosse sempre aria di casa.
Ora che una nuova grande mostra come quella che si apre domani negli spazi del Museo Bernareggi e dell'Accademia carrara/Gamec permette di entrare nel mondo di Ceresa, ci sarà un'opportunità per testare la perfetta applicabilità delle parole di Testori ai ritratti del grande bergamasco. Ma un approccio così impostato innesca subito un'altra curiosità: chi era dunque Ceresa? Risposte sul piano critico e culturale ne troveremo certamente negli studi che hanno preparato questa mostra. Se invece la curiosità è più di carattere umano, ancora una volta ci si può rivolgere alle pagine di Testori. Sono pagine scritte a trent'anni di distanza dalle altre, e destinate questa volta non agli studiosi ma la grande pubblico del maggiore giornale italiano. Testori infatti, da titolare della pagina d'arte del Corriere della Sera, aveva recensito il 21 settembre 1983 la mostra ceresiana organizzata a Palazzo Moroni e alla Carrara. Più che di una recensione si tratta di un'arringa travolgente contro i malposti tentativi di strappare Ceresa dal suo humus provinciale; come se quell'humus fosse un di meno e non invece un di più.
Così Testori non esita a portarci dentro il personaggio. Ricorda come fosse figlio di un calzolaio venuto dalla valtellina in val brembana attraverso il passo di San Marco. E di come, dunque, si potesse partire da questa familiarità con le pelli e con il cuoio per capire la sua pittura. «È ben più di un'infantile memoria… È il luogo d'identificazione del suo croma, diciamo pure la parola, del suo pittorico impasto, non capendo il quale, e prima, non amandolo, poco, credo, si possa capire ed evocare dell'imposto figurale e scenico che in tale impasto, di volta in volta, si realizza». Detto in parole povere: per capire Ceresa bisogna innanzitutto conoscere l'impasto di cui era fatto e che gli avrebbe permesso di rendere i suoi personaggi secondo la «pasta» di cui a loro volta erano fatti. Cioè nella dimensione loro più umana, più familiare, più tattilmente vicina al vero. Conclude Testori: «Una poesia (quella di Ceresa, ndr) che se non si fanno i conti con la materia, al tutto inimitabile e, in effetti, inimitata, poche possibilità esistono perché venga scoperta». Un buon vademecum per i tanti che da domani avranno l'occasione di riscoprire il grande Ceresa. Trattenendosi dalla tentazione di toccare quell'umanissima «pasta» pittorica che ci ha lasciato.
Giuseppe Frangi – L'Eco di Bergamo
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