I sovversivi di BaresiI sovversivi di e l'albero della libertà – Sul finire del Settecento, quando la dominazione veneta, sull'onda incalzante delle idee rivoluzionarie e delle fulminee vittorie dell'armata napoleonica, era ormai avviata verso il disfacimento, la tutela dell'ordine pubblico sul territorio era piuttosto blanda e disorganizzata. Di questa situazione di incipiente rassegnazione approfittavano bande di malviventi che imperversavano un po' ovunque e, contando se non sulla connivenza, sull'allentata attenzione delle autorità e delle forze dell'ordine, non si facevano scrupolo di mettere a segno azioni scellerate quasi sempre ai danni della gente comune. Una delle bande più agguerrite dell'alta Brembana era capeggiata da Gio. Domenico Gervasoni, abitante a Baresi, allora comune autonomo e oggi frazione di Roncobello.

Costui era stato arrestato una prima volta per aver commesso un omicidio, ma dopo qualche anno di galera, nel 1792 era riuscito a evadere ed era tornato in alta valle dove, protetto da parenti e amici e profittando appunto della scarsa efficienza dei tutori della legge, aveva dato vita a una serie di azioni vessatorie nei confronti di alcune famiglie colpevoli, a suo dire, di aver contribuito al suo arresto e alla successiva condanna. Queste famiglie si erano viste chiedere, con minacce e violenze, il versamento di cospicue somme di danaro che lui considerava una sorta di risarcimento dei danni morali e materiali subiti.

In quel periodo si era unito a lui un altro malvivente della zona, Gio.Lodovico Bonetti, e i due, avvalendosi di manovalanza locale, avevano messo in piedi una vera e propria associazione a delinquere, comportandosi impunemente come esattori delle imposte, dei quali scimmiottavano i metodi, arrivando addirittura a emettere “mandati di pagamento” dell'importo proporzionato alle colpe attribuite alle vittime di turno. In seguito le estorsioni si erano estese ad altra gente e ormai nella zona erano in molti a dover fare i conti con quella combriccola. Si dice addirittura che un tale si vide appioppare una multa di 400 lire per aver raccolto del fogliame nel bosco comunale e ciò potrebbe avvalorare l'ipotesi che il Gervasoni, in un impeto di megalomania, volesse atteggiarsi niente meno che a tutore dell'ordine.

Baresi Roncobello

Queste azioni malavitose erano agevolate dal silenzio delle vittime, terrorizzate dalle minacce e preoccupate di evitare ulteriori ritorsioni. Le estorsioni, infatti, erano state parecchie, ma solo una era stata denunciata al vicario civile dell'Oltre Goggia e anch'essa non aveva avuto conseguenze penali per l'accusato, in quanto non fu trovato nessun testimone disposto a presentarsi al processo per confermare le accuse e mettere così l'imputato di fronte alle sue responsabilità.

Nel frattempo a dar manforte al gruppo era arrivato Angelo Gervasoni, cugino di Domenico, che pure era gravato da un non trascurabile fardello di delitti, compresi un'estorsione e un omicidio commessi al Ronco. Poi si erano aggregati altri delinquenti di minor calibro e così la banda aveva raggiunto una forza rispettabile ed aveva cominciato a ampliare il proprio raggio d'azione, entrando in contatto con altri prepotenti della Valle Brembana e in particolare con un gruppo particolarmente bellicoso operante nella zona tra la Pianca e Cespedosio, alle falde del monte Cancervo.

Questa zona era stata teatro di varie operazioni delle forze dell'ordine che a più riprese erano salite lassù da per dare la caccia ai banditi, ma gli esiti erano stati deludenti e le operazioni avevano rischiato di ritorcersi contro gli stessi promotori: una volta i malviventi, protetti dagli anfratti delle rocce, avevano ricevuto gli sbirri a colpi di trombone e ne avevano ferito uno, costringendo il reparto a una precipitosa ritirata. Un'altra volta c'era scappato pure il morto: il 27 marzo 1794, Filippo Belintendi, ventenne della Roncaglia Entro, contrada di San Giovanni Bianco, avendo saputo che le guardie erano nuovamente salite alla Pianca per dare la caccia ai criminali colà stanziati, era accorso sul posto, spinto forse dalla curiosità o dal desiderio di dare una mano ai tutori dell'ordine, ma in breve si era scatenata una sparatoria e il Belintendi era stato ferito a morte da un colpo di archibugio sparatogli contro da uno dei banditi in fuga; era morto una settimana dopo per la profonda ferita riportata.

Ma le azioni violente commesse nel territorio di San Giovanni Bianco nell'ultimo scorcio del Settecento non si limitano a questo episodio: tra il 1787 e il 1800 sono ben nove le vittime di aggressioni e assassinate con colpi di arma da fuoco, senza contare le numerose rapine e i tentati omicidi. Ciò denota che la malavita in quel periodo era del tutto fuori dalla portata dell'autorità costituita. All'azione della Pianca del 27 marzo non dovette essere estranea la banda dei Gervasoni che ne trasse stimolo per compiere un gesto di inaudita sfrontatezza e di eccezionale gravità per le pesanti connotazioni politiche che vi erano connesse: l'erezione dell'albero della libertà.

La mattina del 21 aprile 1794 uno dei due sindaci di Baresi, Martino Bonetti, a nome anche del collega Bernardo Gervasoni convalescente per i postumi di una grave malattia, si presentò a Bergamo nella cancelleria del capitano e vice podestà Nicolò Corner, recando una lettera scritta di proprio pugno nella quale riferiva i particolari dell'azione che aveva messo in subbuglio il suo paese. Dopo aver riassunto le precedenti imprese dei Gervasoni e aver evidenziato come da qualche tempo essi fossero in contatto con i malavitosi della Pianca, diventando ormai “formidabili ed invincibili”, la lettera avvertiva che non avevano “mancato di promuovere la sedizione con l'innalzamento di un albero adornato con una benda rossa e con foglie verdi che da loro viene detto l'Albero della Libertà”.

Il Bonetti esprimeva la convinzione che autori del misfatto fossero proprio Angelo e Gio.Domenico Gervasoni, anche in considerazione del fatto che l'albero era stato eretto sulla fuori della casa di Angelo, e precisava: “Per il pessimo carattere di quei violenti uomini non ho azzardato dir parola né cercare d'informarmi del quando e da chi veramente fosse stato inalzato”. Questa volta la vicenda andava ben al di là delle solite questioni di ordine pubblico di fronte alle quali le autorità reagivano sempre meno energicamente. Il problema adesso era politico ed esigeva la massima fermezza e tempestività: l'albero della libertà era il simbolo inequivocabile della rivoluzione francese e la malaugurata prova che anche in terra bergamasca qualcuno tentava di diffondere le idee sovversive contro le quali il governo veneto aveva emanato perentori e reiterati ordini di vigilanza e severa repressione, consapevole che se il tarlo rivoluzionario si fosse propagato ne sarebbero potuti derivare gravi rischi per la sopravvivenza stessa della Serenissima.

Messo in agitazione dall'inaspettata quanto preoccupante notizia, il Corner sottopose il sindaco a un vero e proprio interrogatorio, nell'intento di raccogliere quante più informazioni possibili sull'identità e il carattere dei sospettati e per verificare se all'origine del misfatto ci fosse un piano sovversivo organizzato e magari sostenuto dal coinvolgimento di più persone, di una banda organizzata o addirittura della maggioranza della comunità di Baresi o di altre località dell'alta Valle Brembana.

Ma almeno in questo senso le risposte del Bonetti furono tranquillizzanti: la gente di Baresi e degli altri comuni non era per niente coinvolta nell'erezione dell'albero e continuava a mantenersi del tutto fedele all'autorità costituita, la responsabilità dell'accaduto ricadeva solo su un gruppo ben individuato di farabutti che si erano permessi di porre in atto un'azione di inaudita ribellione alle leggi dello stato. Corner ritenne suo dovere sottoporre la questione alle autorità lagunari e il giorno stesso inviò un messaggio urgente agli inquisitori veneti denunciando l'accaduto e descrivendo a fosche tinte i non lusinghieri trascorsi dei cugini Gervasoni e dei loro compari e sollecitando direttive chiare e tempestive.

La risposta arrivò il 29 aprile: manco a dirlo, tra tutte le accuse che il Corner aveva formulato a carico dei Gervasoni, una sola veniva presa in considerazione, “quella dell'innalzamento di un albero col titolo di Albero della Libertà, atto a promuovere la sedizione nei tempi presenti di generale sconvolgimento de' buoni ordini, nei quali si predica l'insubordinazione e la licenza”. Le consegne erano di istruire un processo per direttissima con rito segreto a carico dei malviventi, organizzare un'azione di polizia per procedere alla loro immediata cattura e abbattere pubblicamente l'albero della libertà, nel caso che questo fosse tuttora in piedi. L'operazione ebbe inizio nella notte tra il sabato e la domenica del 10 maggio. Da Bergamo partì alla volta di Baresi una squadra di bassi ministri al comando del tenente Melchiorre Astini, scortati da un drappello di soldati a cavallo e guidati da confidenti del paese espressamente inviati dal comune. Arrivati nei pressi di Baresi, i tutori dell'ordine si appostarono in un luogo appartato, in attesa che facesse giorno, e attesero che, secondo le informazioni raccolte, i ricercati uscissero di casa per recarsi in chiesa. Così avvenne: Angelo e Gio.Domenico Gervasoni furono arrestati proprio all'interno della parrocchiale mentre, disarmati e senza complici, stavano assistendo alla messa domenicale.

Subito dopo la messa la popolazione di Baresi fu sollecitata a portarsi nel luogo dove era ancora eretto l'albero della libertà, che fu diligentemente abbattuto sotto l'attenta supervisione del tenente Astini, il quale provvide poi a stendere una dettagliata relazione per il capitano Corner: “Di faccia alla casa abitata dal detto Angelo Gervasoni di Gio. Domenico trovai piantata un'alta pianta di albore secco, che nell'altezza superava l'abitazione del detto Angelo Gervasoni, e nella cima di detta pianta eravi un fascio di alloro reso secco per esser da alquanto tempo che trovasi sopra detto albore e nel pennacchio di detta cima d'alloro eravi diverse fettuccie di stoffe a vari colori, che dissero quegli astanti e sindici di detto Comune che per tali insegne veniva chiamato dalli ora detenuti l'Albore della Libertà. Feci atterrare però detta pianta solennemente a presenza di sindici sudetti e di molti altri, e reso detto albore in pezzi, lo feci abbruciare e consunto, riservato avendo la piccola cimetta d'alloro o sia penacchio, con le fettucce, sembrandomi convenga presentarla come faccio”.
Anche il Corner non mancò di trasmettere il suo rapporto ai superiori, assicurando di aver eseguito prontamente gli ordini ricevuti, organizzando l'operazione di polizia costituita da “bassi ministri scortati da un distaccamento militare” e “animandoli in nome di codesto supremo tribunale anche colla promessa del premio”, compiacendosi poi di annunciare che “domenica scorsa, la mattina, non solo è seguito nelle prescritte forme l'atterramento del detto albero, ma anche il cauto arresto dei due Gervasoni, i quali si trovano ora in queste carceri”.

Dalla relazione del Corner emerge un aspetto singolare della gestione dell'ordine pubblico di quegli anni: la necessità di fare opera di convincimento nei confronti delle guardie, anche mediante promessa di compenso, affinché accettassero di intervenire. E in effetti i bassi ministri che avevano eseguito l'arresto ricevettero poi un compenso di 600 lire. Questo bisogno di contrattare con i subalterni un'operazione di polizia la dice lunga sull'effettivo potere che avevano i rettori di Bergamo in quel periodo.

La notizia dell'erezione dell'albero della libertà si era intanto diffusa nei salotti della Bergamo bene, suscitando l'entusiasmo di quanti erano da tempo in attesa di novità rivoluzionarie, ma anche l'apprensione di coloro, ed erano la maggioranza, che non si attendevano nulla di buono dalle idee libertarie ed egualitarie della Francia giacobina. Per un certo periodo in città non si parlò d'altro, tuttavia le informazioni, volutamente censurate dalle autorità, circolavano in modo frammentario e confuso, alimentando equivoci e incertezze, tanto che a un certo punto, forse per via dei contatti che i Gervasoni avevano avuto con i banditi della Pianca, ci si convinse che l'albero della libertà fosse stato piantato proprio in questa località e non a Baresi.
Per il momento, però, l'euforia rivoluzionaria si placò in fretta in quanto l'azione penale a carico dei due cugini arrestati fu immediata e perentoria: rinchiusi nelle carceri della città, i due furono subito processati e condannati e il 31 maggio il Corner, esaurito il suo compito, fu in grado di farli trasferire a Venezia assieme a “una scatola contenente la cima dell'arbore intitolato della libertà inalzato nella villa suddetta”, a disposizione delle autorità lagunari.
Il processo “sopra tal scandaloso avvenimento”, sollecitato dall'inquisitore Agostino Barbarigo, iniziò il 28 maggio e fu caratterizzato dalla deposizione segreta di numerosi, in gran parte di Baresi e dell'alta Valle Brembana e quasi tutti animati dal desiderio di vendetta per le prepotenze che avevano subito da parte dei due imputati.

Fin dalle prime battute, malgrado le sue reiterate attestazioni di estraneità all'episodio, apparve evidente il ruolo preponderante di Gio.Domenico Gervasoni nel decidere le azioni della banda e dirigerne l'esecuzione. Gli atti del processo lo descrivono con tratti immediati ed efficaci “Un uomo di statura piuttosto alta, scarno, con baretta in testa a righe bianche, rosse ed altri colori, di capigliatura nera, tagliata al di dietro, barba simile, naso piuttosto lungo, vestito con veludino corto di fustagno, di fondo verde, con righe pur verdi, ma più scure, con gilé al disotto di fustagno, fondo bianco con fioretti piccoli di vari colori, con fazzoletto al collo di mussolina con contorno rosso ed a scacchi e fiori diversi, con camicia di canape con doppio bottone, bragoni compagni del milordino, calze a righe verdi e giallette, con fiori, scarpe di bruna con fibbie d'argento bislunghe, tabarro di panno color vede, dell'età di anni 39 circa”.

Gio.Domenico sostenne quindi di essere del tutto estraneo alla presenza a Baresi di “quella pertica che stava alzata in un canto della pubblica strada” in prossimità della casa di suo cugino Angelo, limitandosi ad ammettere di averla notata qualche volta passando da quelle parti, ma precisando che non era al corrente del motivo per cui tale pertica si trovasse lì.
Il cugino Angelo dovette invece ammettere di aver personalmente innalzato la pertica, ma cercò di minimizzare la portata della sua azione, escludendo risolutamente ogni intento politico e sovversivo, ma sostenendo che si trattava solo di un gioco, uno scherzo innocente simile a quelli che si facevano anche in altri paesi della Bergamasca.

Egli spiegò infatti che era stata sua intenzione rinverdire l'usanza dell'erezione del mazo con la quale un tempo i giovani scapoli accompagnavano i preparativi di matrimonio di un amico. In effetti la tradizione del mazo consisteva nel piantare nel mese di maggio (mas) davanti alla casa di una ragazza una pertica con in cima un pennacchio multicolore per significare che la giovane era promessa sposa e non era quindi più libera. Nel caso in questione il futuro sposo per il quale Angelo aveva eretto il mazo era tal Giuseppe Gervasoni, suo amico, e il pennacchio multicolore – asseriva lui – era stato formato mettendo assieme strisce di stracci portati da donne del paese. Quanto alle accuse di aver invece inteso innalzare l'albero della libertà, Angelo Gervasoni sostenne di non sapere di che cosa si trattasse, di non aver mai visto niente di simile e di aver solo sentito tempo addietro, da compaesani che erano andati a lavorare in Piemonte, che in Francia s'innalzavano alberi di questo tipo. Ma i giudici, tutt'altro che convinti dalla dichiarazioni dell'imputato, gli opposero la testimonianza di uno che era stato in Francia e confermava che quello innalzato a Baresi era proprio un piccolo albero della libertà, simile in tutto a quelli che si piantavano in terra francese.

Questa fu la prima delle testimonianze, tutte circostanziate e concordemente a sfavore dei Gervasoni e tutte rigorosamente raccolte dai giudici nel segreto dell'istruttoria. Un cittadino di Baresi affermò che effettivamente quell'albero faceva pensare ai giacobini francesi e che il parroco e le donne del paese avevano ripetutamente, ma invano, chiesto che fosse levato. Aggiunse anche che i due cugini erano soliti, quando erano nelle osterie, chiamare questa pertica “albero della libertà” e che una notte si erano messi sotto l'albero e avevano sparato colpi di fucile in aria, gridando “viva la libertà”. Lo stesso testimone chiarì inoltre che quello piantato dal Gervasoni non poteva essere considerato un mazo poiché alberi di questo tipo venivano eretti solitamente il primo maggio, dai giovani del paese, davanti alla casa delle fidanzate e come pennacchio portavano una ghirlanda di fiori, non fettucce colorate come quelle che si usavano in Francia.

Altre testimonianze chiarirono la natura dell'antica tradizione del mazo: effettivamente esso veniva innalzato la notte del primo maggio davanti alla casa della promessa sposa per avvertire gli altri giovani del paese che ormai la ragazza non era più libera; l'albero veniva solitamente ornato con una ghirlanda o, in altre zone, di mazzi di fiori e frutta. Tutte le deposizioni confermavano poi che l'usanza del mazo era caduta in disuso da tempo, al punto che un anziano del paese, di settantadue anni, non aveva mai visto nessun mazo a Baresi.

Contro il Gervasoni c'era anche la circostanza che il suo albero non era stato piantato il primo maggio, bensì parecchi giorni prima, addirittura durante la Quaresima e poi era stato posto fuori della sua casa e non fuori dell'abitazione di una ragazza promessa sposa, anzi, a detta dei ben informati, non c'era al momento nessuna ragazza di Baresi che fosse in procinto di sposarsi.
Per giunta un testimone assicurò che il 25 aprile, giorno di San Marco, patrono di Venezia, sul pennacchio dell'albero era comparsa una berretta rossa con tanto di coccarda, del tutto simile al cappello frigio dei rivoluzionari, però il giorno successivo la berretta era scomparsa, forse perché era caduta o era stata rimossa. Un altro testimone riferì quanto aveva personalmente udito. Un giorno la madre di Angelo aveva lasciato che le sue capre sconfinassero nel campo di frumento di un vicino. Costui se n'era lamentato con Angelo il quale lo aveva zittito perentoriamente avvertendolo che ormai avevano piantato l'albero della libertà…

Insomma, tutte le testimonianze concordavano nel demolire l'ipotesi difensiva di Angelo Gervasoni e coinvolgevano pesantemente nell'accusa anche il cugino Gio.Domenico il quale per giunta era stato descritto come individuo irreligioso e palesemente simpatizzante per i Francesi. Troppe circostanze infatti convergevano nel dimostrare che i due personaggi erano pienamente a conoscenza delle idee rivoluzionarie e del valore simbolico dell'albero della libertà, senza contare che essi erano stati uditi spesso prendere posizione a favore dei Francesi, sostenendo che dovunque era arrivata la rivoluzione erano migliorate le condizioni di vita della gente comune.

Gio.Domenico era stato visto più volte intento a leggere giornali sovversivi che i progressi dei rivoluzionari ed era stato udito pronunciare frasi del tipo: “Che vengano pur i Francesi e tutti eguali, non vi sarà più Dio, non vi sarà più Messa, quando siamo morti non c'è più altro: la roba si partirà e chi ne avrà dovrà dividerla cogli altri, e diverremo tutti eguali”. E un altro testimone affermò di averlo sentito dichiarare che con i Francesi tutti gli abitanti di Baresi sarebbero stati meglio e che la povera gente sarebbe stata sollevata dalle gravezze. Di fronte a tali schiaccianti testimonianze il processo finì col far prevalere la tesi dello spirito rivoluzionario che animava i due cugini, per i quali si aggiunse poi l'aggravante di essere, oltre che pregiudicati, uno addirittura evaso dalla galera entrambi accusati di vari altri crimini commessi nel recente passato.

Di conseguenza, malgrado fosse emerso in tutta chiarezza che l'erezione dell'albero era stato un gesto occasionale, circoscritto alla responsabilità di un gruppo ristretto, non condiviso dalla generalità della popolazione e destinato a non avere seguito, il fatto fu ritenuto una grave minaccia alla sicurezza dello stato e da punire con una sanzione esemplare. La decisione riguardo alla pena fu però lasciata agli inquisitori veneti ai quali, come detto, i due Gervasoni furono consegnati il 31 maggio assieme a quello che restava del corpo del reato. Non è nota la fine che i parrucconi veneti riservarono ai due supposti agitatori bergamaschi, ma qualunque sia stata la decisione degli inquisitori lagunari, essa non influì certo sul destino che si stava profilando per la gloriosa Serenissima, prossima a dissolversi con il trattato di Campoformio del 1797 e la conseguente cessione di Venezia all'Austria.

In margine alla vicenda non va trascurato quanto gli inquisitori scrissero al capitano Corner il 6 giugno seguente in merito alla constatazione che anche nei paesini sperduti della bergamasca c'era qualcuno che si dedicava alla lettura dei giornali: “Rilevando Noi che la lettura de' pubblici fogli che sifa anche nelle ville, porti a cognizione degli idioti gli avvenimenti che succedono in Francia e le massime sovversive che desolarono quel Regno, le quali quanto sono seducenti all'apparente suono delle voci colle quali si annunciano, altrettanto sono erronee nei loro principii, fallaci nelle loro promesse, e rovinose nei loro effetti, perciò riputiamo necessario di togliere la causa che seduce l'ignorante villico e turba la sua tranquillità. Quindi le ingiongiamo di proibire che nella sudetta villa di Bàrisi si leggano in luoghi di pubblica riduzione fogli di notizie di qualunque natura essi siano; e prestandosi quindi a riconoscere se in altre ville di codesto territorio si trovasse introdotta una tale pericolosa lettura, specialmente nelle spicerie ed altre pubbliche botteghe, a parte a parte senza generalizzar in un sol momento la providenza, renderà comune il divieto, potendo le poche persone superiori alla seduzione ed atte a garantirsi dalle sue insidie soddisfar privatamente l'onesta loro curiosità”.

E' un documento assai istruttivo sulla considerazione di cui godeva il popolo bergamasco presso i governanti veneti. Ritenendo assolutamente indispensabile che nei confronti di Baresi e di altre località del territorio si usasse ogni diligenza per scongiurare la diffusione di idee sovversive tra gli idioti abitanti e togliere di mezzo tutto ciò che avrebbe potuto ingannare l'ignorante villico e turbare la sua tranquillità, si sanciva la definitiva sconfitta storica dell'antico regime e la fine ingloriosa di un sistema che pure aveva vissuto momenti di indubbia grandezza.

Tratto da Briganti e banditi bergamaschi
realizzato da Ermanno Arrigoni e Tarcisio Bottani, Wanda Taufer, disegnatore: Aldo Bortolotti.

La trattazione di questa vicenda segue liberamente la documentata ricostruzione che ne fece Bortolo Belotti con il titolo Il primo “Albero della Libertà” in terra di San Marco, pubblicata in “Bergomum” n. 3, 1925. Il Belotti per la sua ricostruzione si avvale del materiale reperito presso l'Archivio di Stato di Venezia nel fondo Inquisitori di Stato, bb. 6, 16, 225, 1247.

La vicenda è trattata anche da Tarcisio Bottani, Wanda Taufer, Un albero sovversivo, in “Storie del Brembo, fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento”, editrice, Clusone, 1998 e da Felice Riceputi, L'Albero della Libertà di Baresi, in “Storia della Valle Brembana”, Corponove, Bergamo, 1997. Per l'eposodio reklativo alla Pianca di San Giovanni Bianco, si veda,Tarcisio Salvetti, San Giovanni Bianco e le sue contrade, Ferrari editrice, Clusone, 1994.