Patria, amore, dolore Clelia, la mamma dei Calvi e di tutti gli alpini
Senza categoria Articolo letto da 466 utenti - Pubblicato il 7 Giugno 2013Piazza Brembana – Potrebbe sembrare singolare iniziare una storia degli alpini bergamaschi parlando di una donna: invece, siccome dietro ai grandi uomini ci sono sempre grandi nonne, grandi madri e grandi mogli, è proprio di lì che mi piacerebbe cominciare. E da un giorno di lutto, che, paradossalmente, fu un giorno di festa. Era il 3 marzo 1953, quando, nella sua casa di piazza brembana, morì Clelia Pizzigoni, nota a tutti gli alpini come “Mamma Calvi”: e per tutti gli alpini fu come se fosse morta la loro di mamma. Era nata ad Antegnate, nella Bassa, ma aveva sposato Momolo Calvi e si era trasformata in “gogisa” per amore. Partorì i quattro fratelli calvi, che sono l'immagine stessa dell'alpinità bergamasca. Li mise al mondo, ne fece degli uomini forti e buoni e, infine, le toccò quello che a nessuna madre dovrebbe mai toccare: li raccolse nella cappella di famiglia, alla fine di ottobre del 1921, chiusi in quattro bare uguali.
Non era una donna dura Clelia Pizzigoni: si costrinse, parole sue, a divenire una “madre spartana”, ma era un'anima d'artista, che amava i fiori e la musica. Però, al di sopra dell'arte, aveva un altro amore, che era addirittura più forte dell'istinto: amava l'Italia, di un amore semplice ed immediato; ed insegnò ai suoi ragazzi che servire la Patria era un dovere da accettare tranquillamente, senza clamori e senza fanfare, come un lavoro e come un destino. E i quattro Calvi, Nino, Attilio, Santino e Giannino, fecero semplicemente il proprio dovere, con scrupolo e con entusiasmo: in fondo, l'eroismo non è nulla di eccezionale. Proprio questo fece, forse, di loro gli eponimi dell'alpinità bergamasca: la normalità del sacrificio. L'idea di fare le cose perchè vanno fatte: e vanno fatte presto e bene. Come un operaio che lavora al suo tornio o un manovale che alza un muro bello dritto. Una lezione che, oggi, sarebbe fondamentale per i nostri ragazzi, che hanno la fortuna di non dover rischiare la ghirba in guerra, ma subiscono la maledizione di vivere in una società senz'anima.
Morirono tutti e quattro, i fratelli alpini: Attilio sull'Adamello, a Fargorida, nel 1916. Santino sull'Ortigara, il Golgotha degli alpini, nel giugno del '17. Giannino, il più giovane, classe '99, a Padova, di spagnola, due mesi dopo la fine della guerra. Rimaneva Nino, il più anziano, del 1887: tornò in Adamello, inseguendo un richiamo terribile ed inevitabile, per morire precipitando dalla Nord, nell'estate del 1920. Poco più di un anno dopo, bergamo li accolse, tutti di nuovo insieme, nella chiesa delle Grazie, e poi, in un saluto di tutti i bergamaschi, i Calvi giunsero al cimitero di Piazza brembana, dove ancora riposano.
La madre rimase sola, nella casa dove li aveva allevati, terribilmente silenziosa. Poi, finalmente, quel 3 marzo di sessant'anni fa, arrivò anche lei, nel Paradiso di Cantore. Ad accoglierla c'erano tutte le penne mozze delle guerre in cui gli alpini si erano sacrificati: e chi voleva stringerle la mano, chi toccarle il vestito, chi farle una carezza. Erano tutti figli suoi, quegli sconosciuti con le divise della Libia e gli stracci della Russia. Infine, se li trovò davanti: Nino, Attilio, Santino e Giannino. Erano tali e quali come se li ricordava: come li aveva rivisti mille volte nei sogni. E le sorridevano, felici.
Marco Cimmino – Bergamo NEWS
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