CantiglioPomeriggio di fine estate di pò di anni fa. Sono appena tornato da scuola, la giornata è bella e non ho alcuna intenzione di studiare, ma è anche tardi per chiamare gli amici.

In questi casi c'è solo una cosa da fare: compiere un giro esplorativo per la Brembana. Prendo il mio cinquantino e da Brembilla attraverso la Forcella di Bura, scendo a Sottochiesa e da qui al Ponte della Lavina; mi sono messo in testa di raggiungere il borgo di Cantiglio, tanto decantato dal mio professore di storia per la sua bellezza e per il tragico martirio di tre partigiani alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

La mulattiera è molto suggestiva e si inerpica tra le guglie del Monte Cancervo in maniera quasi miracolosa per arditezza, comincio a dubitare 'esistenza del borgo in un posto così selvaggio, finché dopo una selletta mi si apre davanti un vasto prato scosceso con molte stalle e baite, soprattutto diroccate ma dalle quali traspare una serena armonia…è questo Cantiglio!

Non c'è nessuno, ma sui prati pascolano in libertà alcune mucche; la mia attenzione viene attirata subito da un caseggiato ristrutturato e dipinto di un colore rosso vivo, è il luogo dove morirono sotto i colpi di fucile i tre partigiani, ed ora è anche un , che però è chiuso. Poco più in là vedo l'umile chiesetta del borgo, ma anche questa è chiusa.

Vicino alla chiesina sta una vecchia stalla, sembra ancora utilizzata ma anche qui non c'è anima viva. Ad un tratto però sento una voce dal tono bonario e accogliente: “buongiorno!”. Mi giro in tutte le direzioni per capire da dove venga questo suono rauco ma al contempo acuto, finché non noto sulla della stalla un vecchio signore sorridente e dallo sguardo curioso, che regge il peso delle molte primavere su un robusto bastone di legno e sembra venuto direttamente da un dipinto di fine ‘800, per quanto è pittoresco.

Lì per lì resto inebetito per l'improvvisa apparizione, ma poi prevale la curiosità, iniziamo a conversare in dialetto e scopro che sto parlando con l'ultimo custode di questa antica contrada: “me sto méi ché, piòtost che giò ‘n paìs!”. L'anziano saggio mi racconta che da Cantiglio non si sposterebbe mai, perché qui ha i suoi da far pascolare, anche se non gli danno troppi problemi, infatti mi dice: “gò mìa bisogn de cùrega dré: me sto ché, fò de la stàla, lur ì sa chi gà mìa de scapà, e i scapa mià.” Quando gli serve qualcosa dice che scende al Ponte della Lavina a dorso d'asino, perché i piedi non lo reggono più.

L'anziano pastore ama il suo borgo più di ogni altra cosa, neppure le preghiere dei figli lo hanno spinto a lasciare questa terra. Sprigiona una saggezza antica e vera, è incuriosito dal fatto che un giovane si interessi ancora di visitare le antiche contrade ed io gli rispondo che non sono certo l'unico; a questa affermazione forse gli scende una lacrima sulle guance, poi sorridendo dice di aver fiducia nelle nuove generazioni.

E' quasi sera, ormai è tardi e devo andare, il vecchio pastore mi dice di tornare a trovarlo, ma non farò a tempo. Come tutte le cose più delicate e fragili, anche lui, poco dopo averlo conosciuto, lascia questa terra e scompare tra i meandri del tempo con la propria memoria. La mia speranza è che la vera testimonianza dell'ultimo custode di Cantiglio nel futuro venga ricordata, e non divenga soltanto una leggenda di un'era remota e, forse, mai esistita.

Andrea Carminati

LA FESTA DELLA MONTAGNA A CANTIGLIO