San Pellegrino Terme – «Romanzo e poesie di ieri e di oggi. Incontro di due generazioni»: l'idea politico-culturale-turistica del convegno letterario così battezzato, era stata del sindaco di San Pellegrino Gian Pietro Galizzi, l'organizzazione del critico Giuseppe Ravegnani che risiedeva là e coinvolse la Mondadori. Ed ecco allora – tra il 16 e il 19 luglio 1954 – arrivare in Val Brembana una significativa rappresentanza della repubblica italiana delle lettere. Giungevano infatti nella cittadina termale, in uno dei primi festival antesignani di quelli odierni, nove scrittori affermati impegnatisi a lanciare dieci esordienti. I loro nomi?

Beh, non male a scorrere l'elenco. Emilio Cecchi, che portava Giorgio Bassani; Giovanni Comisso con Goffredo Parise; Alba de Céspedes con Paride Rombi; Guido Piovene con Enzo Bettiza; Leonida Rèpaci con Italo Calvino; Giuseppe Ungaretti con Andrea Zanzotto; Diego Valeri con Guido Lopez; Maria Bellonci con Luigi Incoronato e Dario Cecchi invitato – pare – all'insaputa del padre Emilio; Eugenio Montale con Lucio Piccolo. Ad altra occasione il bilancio di quell'evento che vide davanti a un pubblico sparuto, scrittori, cronisti, editori, addetti-stampa, operatori della nascente televisione, come pure parecchi membri di un interessante «Comitato d'onore» fatto di autori maturi e giovani (Corrado Alvaro, Oreste Del Buono, Corrado Govoni, Alfonso Gatto, Francesco Flora, Goffredo Bellonci, Ignazio Silone, Luigi Santucci, Giovanni Titta Rosa, Aldo Camerino, Pietro Citati), sparsi tra il Grand Hotel e il Teatro Kursaal (dove si svolgevano le presentazioni) o fra il Casinò e il piazzale delle Terme (con più d'un aspirante poeta di casa nostra, che, carico di libretti, tampinava quelli di successo). No. Noi qui ci fermiamo su una delle presenze più singolari a quella manifestazione. Un tizio che era arrivato lassù dalla Sicilia solo per accompagnare il cugino poeta – Lucio Piccolo – come gli aveva chiesto la zia Teresa, che, non paga, aveva chiesto all'autista di famiglia di fare da guardia del corpo ai due. Sì, stiamo parlando di Giuseppe Tomasi, cinquantottenne principe di Lampedusa.

In quei giorni solo un accompagnatore silenzioso, schivo (al quale del resto «piaceva stare più con le cose che con le persone»), e tuttavia attento, discreto, sempre pronto a rispondere ai giornalisti che lo interrogavano che era un principe siciliano e a non lesinare loro fugaci inchini. Non pochi i ricordi – di Bassani, Piovene, Montale, Lopez, eccetera – che ne descrivono l'abbigliamento fuori luogo nella calura estiva: il vestito nero, la bombetta in testa, il nodoso bastone necessario per una brutta artrosi all'anca, o l'incedere poco solenne a dispetto del titolo nobiliare, e via dicendo.
«… Lei sa come fummo giudicati, due mezzi contadini venuti da chi sa dove, o almeno due goffi provinciali impacciati. Noi ci divertivamo moltissimo. Ricordo il ritorno attraverso la valle del in un trenino fogazzariano e se quel legname avesse potuto parlare, saremmo stati lapidati. Riassumevamo infatti tutte le tronfiaggini e i discorsi convenzionali che avevamo udito. Lampedusa eccelleva nel cogliere l'elemento burattinesco dei personaggi anche seri, arrivammo perfino ascrivere gli articoli che avrebbero scritto su di noi i diversi critici e giornalisti, e azzeccammo quasi sempre i giudizi», dirà Lucio Piccolo nel '62 a Camilla Cederna in un'intervista. In realtà, di tutto si trattava meno che di due personaggi vanamente a zonzo in quel «limbo per letterati» che, come scrisse Calvino, si trovò ad essere la ville d'eau in quei giorni. Autore vero Lucio Piccolo lo era già, e il cugino a passeggio con lui lungo i vialetti attorno al Kursaal, sì quell'aristocratico dal pastrano abbottonato più simile ad un generale in pensione che ad uno scrittore, lo sarebbe diventato presto, benché morì – sconosciuto – senza aver visto pubblicato il suo capolavoro.
Quello cominciato al rientro a casa dopo quelle giornate a San Pellegrino che gli avevano fatto superare ogni dubbio e incertezza. Poche giornate che avevano riacceso – grazie a quell'unico vero contatto con il mondo letterario del tempo dove non c'erano solo genii – una fiamma che covava sotto la brace di un letargo letterario, spingendolo all' azione Scrivendo dei suoi cugini, dopo il premio a Lucio a San Pellegrino, Tomasi di Lampedusa ebbe ad osservare: «… Mi sono sentito pungere sul vivo, avevo la certezza di non essere più fesso di loro (dei cugini) … mi sono seduto a tavolino ed ho scritto un romanzo…».
Detto con le parole di Bassani, sorpreso dal fatto che «il Gattopardo fosse stato scritto, dal principio alla fine, fra il '55 e il '56», «era accaduto pressappoco questo: reduce da San Pellegrino, il povero principe si era messo al lavoro, e in pochi mesi, un capitolo dopo l'altro, aveva composto il libro. Aveva avuto appena il tempo di ricopiarlo: poi, subito, si erano manifestati i primi segni della malattia che in poche settimane l'avrebbe ucciso».

«Venticinque anni fa mi annunziò che intendeva fare un romanzo storico, ambientato in Sicilia all'epoca dello sbarco di Garibaldi a Marsala, e imperniato sulla figura del suo bisnonno paterno, Giulio di Lampedusa, astronomo», dichiarò la vedova di Tomasi di Lampedusa, Alessandra Wolff, aggiungendo «ci pensava continuamente, ma non si decideva mai a cominciare». Poi tornato dalla Val Brembana, la svolta. «Andava a lavorare al Circolo Bellini. Usciva di casa la mattina presto, e non rientrava che verso le tre…». Il resto entra nella storia di un caso letterario. Apparso postumo con Feltrinelli l'11 novembre 1958 «Il Gattopardo» ebbe una sua fortuna editoriale che arriva ai giorni nostri, ma costituisce pure l' eredità di una vita che fu – scrisse Geno Pampaloni – «un'avventura spirituale intensa e sorvegliata, una consapevole lettura del mondo e del nostro tempo».

Marco Roncalli – Il Corriere della Sera e Provincia

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