Così tutto Roncobello nascose per due anni e salvò la vita a 9 ebrei
Senza categoria Articolo letto da 656 utenti - Pubblicato il 24 Novembre 2013Roncobello – Mi permetto narrarvi la storia della mia famiglia dal 1943 al 1945.Dopo aver subito il campo di concentramento di Ferramonti fummo mandati, come internati liberi, prima a Ponte Nossa e poi a Branzi. Rimanemmo in questo paese fino al settembre del 1943, epoca della capitolazione. Per molti giorni ci assillò un grave problema: andare o restare, finché venne richiesto alle varie stazioni dei carabinieri ed ai podestà se v'erano ancora degli ebrei e in caso positivo di consegnarli. I carabinieri stessi ci avvertirono indirettamente del grave pericolo e non ci restò altro da fare che fuggire. Casualmente incontrai l'uomo al quale dobbiamo – si può dire – la vita: il geometra Isacco milesi podestà del Comune di Roncobello.
Gli spiegai senza preamboli la nostra situazione ed egli senza la minima esitazione ci disse di venire nel suo paese il giorno dopo e nel contempo ci avrebbe procurato un alloggio e comunicato alla Prefettura di Bergamo che non v'erano ebrei nel paese. Raggiungemmo l'indomani a piedi il paese. C'ero io, mia moglie, i miei due figli, due anziane sorelle ebree jugoslave e un'anziana coppia viennese. Il Podestà ci alloggiò in una casetta. Rimanemmo a Roncobello due anni. Per prima cosa ci procurò, facilitato dalla sua carica, tessere annonarie e documenti con nomi naturalmente inventati. Ma oltre al Milesi ricordiamo con viva riconoscenza tutti gli abitanti del paese che sapevano della nostra esistenza fra loro e ci aiutarono a nasconderci durante i famosi rastrellamenti…».
È questo documento, datato 26 maggio 1955, custodito a Milano presso il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea e firmato da Arnoldo Israilovici, uno dei salvati dal podestà, la lontana premessa del libro «Il Paese dei Giusti» scritto da Teresa Garofalo e Giuseppe Valota. Una vicenda quella di Roncobello che meritava di essere approfondita. Come Valota ha fatto negli ultimi 10 anni alla ricerca di documenti e testimoni in grado di confermare e completare con inediti particolari la bella storia del Paese dei Giusti. Sì: come chiamare tutto un paese che sapeva e non parlò? A coprire gli ebrei rischiando di più, furono, insieme al podestà (al quale l'anno scorso Yad Vashem ha tributato il titolo di «Giusto fra le Nazioni»), il parroco di allora don Giovan Battista Ceroni, il segretario comunale Onorato Oldofredi, il maestro Turi Bellia, il barbiere Lorenzo Milesi, ma l'elenco dovrebbe continuare con tutti gli abitanti di Roncobello. Pagine dove echeggiano le voci di Isacco, (nato «all'ospedale di Bergamo l'8 maggio del 1942», registrato dall'ostetrica e dall'infermiere dell'ospedale non potendo farlo i suoi «in quanto ebrei»), del fratello Leonardo, della sorellina Hella Sara Ester (deceduta nel 1942), dei loro genitori Arnold Israilovici e Riyfka Regina, della zia Lola… Senza dimenticare le sorelle jugoslave e i coniugi austriaci, che ricorda qui Giampietro Milesi, uno dei figli del podestà-eroe, grazie all'aiuto di suo padre ripararono a Clusone, riuscendo a salvarsi. «Mio padre non mi ha mai parlato di quello che ha fatto per gli ebrei durante la guerra», risponde Giampietro a Valota che lo intervista.
E tuttavia ben ricorda le «visite» dei tedeschi. «Almeno quattro» a Roncobello e quell'Arnold che «quando i tedeschi finalmente se ne andavano, usciva da quei nascondigli tutto sporco, pieno di polvere e di foglie secche e si rivolgeva alla casa più vicina, quella di Gervasoni Ernesto o della Milesi Santina, per pulirsi e bere un pò d'acqua perché aveva paura che alla fontana della Costa si trovasse ancora qualche tedesco». Così come ricorda altri accorgimenti per evitare che gli ebrei potessero venire identificati: «… per cercare di farli apparire come noi, ad esempio come abitudini religiose, Ines Milesi, che abitava in paese, insegnava alla famiglia la preghiera del Padre Nostro».
Nel libro anche le testimonianze di altri familiari del «podestà». La nipote Giulia rammenta che durante una perquisizione dei tedeschi «la signora ebrea si fece trovare a letto fingendo una forte malattia infettiva alla gola e così poté salvarsi», rievocando pure una caccia dei nazisti a don Ceroni «scappato attraverso il Monte Menna, appunto perché ricercato per l'appoggio che dava ai partigiani». Nel racconto del nipote Vito, invece, si stagliano nitidi i profili della famiglia Israilovici, in particolare del figlio maggiore: «Per un anno sono andato a scuola a baresi e con me veniva anche Leonardo… Voleva diventare ingegnere. La casa di mio zio Isacco era alla Costa. Sulla destra, dove la strada si spiana, lì appunto c'era la casa dello zio e vicino ce n'era un'altra, quella dove era nascosta la famiglia Israilovici. La sera il signor Israilovici si nascondeva in un fienile dietro la casa, aveva scavato nelle foglie già stagionate creando un buco, si infilava e richiudeva il buco che era quasi una caverna…».
Rina, altra nipote, afferma che gli ebrei nascosti «…un pò stavano in casa dell'Isacco e un pò da mia sorella Maria, che aveva la casa vicina a quella dell'Isacco, sempre alla frazione Costa Inferiore». Si ricorda bene «di Leonardo e di Isacco» e conclude: «In paese sapevamo tutti che quelli che nascondevamo erano ebrei e quindi correvamo i nostri rischi». Luisa Milesi, pronipote di Isacco sottolinea la completa adesione della comunità alla richiesta del silenzio: «Tutti, anche noi bambini – all'epoca io avevo solo 5 anni -, avevamo capito. Per fare un esempio, quando giocavamo con Isacco e Leonardo e qualche forestiero chiedeva chi fossero, nessuno di noi ha mai rivelato che erano ebrei». E il suo pensiero va anche al barbiere: «Lui conosceva tutti e loro, i tedeschi, pensavano che dalla sua bocca potessero uscire notizie utili. Però non ha parlato. E l'hanno anche torturato». Si alternano pure testimonianze extra familiari. Così Antonia Bonetti cita il maestro Bellia, che a proposito di Leonardo raccomandava: «È un ragazzo come voi, dovete volergli bene, rispettarlo, però dovete anche essere capaci di tacere la sua posizione». E Antonietta Gervasoni così conclude i suoi ricordi: «È stata una specie di tacita intesa da parte di tutti, queste persone bisognava proteggerle e salvarle». Salvarle dalle leggi inique che apparse 75 anni fa – un anniversario passato quasi sotto silenzio – come provvedimenti di discriminazione, di lì a pochi anni si trasformarono in ordini di deportazione e sterminio.
Marco Roncalli – Il Corriere della Sera – Bergamo e Provincia
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