Il CamoscioHo assistito spesso a discussioni sostenute da alcuni cacciatori di ungulati circa la presenza nella nostra Brembana di camosci appartenenti a due specie ben distinte o, a detta dei più moderati, a specie quantomeno diverse così definite: il camoscio che vive solo sulle rocce ( cornaröl ), e il camoscio che vive prevalentemente nel bosco (boscaröl). La discussione poi si focalizza sull'opportunità o meno di prelevare in modo massiccio i camosci presenti nel bosco a vantaggio di quelli stazionanti a quote maggiori, prelievo che compenserebbe le perdite invernali maggiori nelle popolazioni che abitualmente abitano le zone più elevate.

Devo premettere che per me è comunque piacevole assistere a queste discussioni, senza doverci entrare in modo diretto, in sostanza senza lasciarmi coinvolgere più di tanto. Non per mancanza di opinioni in merito, o per il rischio che schierandomi possa procurarmi possibili antipatie, ma per il semplice gusto di lasciar sviluppare in ogni contendente una forma di pensiero proprio, quasi sempre sostenuto da convinzioni dovute a racconti di vecchi cacciatori e da esperienze o teorie strettamente personali.

Oggi, pur senza consultare la letteratura esistente, non è difficile prendere posizione su un argomento simile. Al riguardo, tutti noi “cacciatori moderni” abbiamo letto qualcosa in merito o partecipato a corsi di formazione, e ben sappiamo che l' italiano è abitato da una sola specie: Rupicaprarupicapra-rupicapra, per l'appunto il camoscio alpino. Ma allora perché abbiamo dei camosci che difficilmente si inoltrano nel bosco e altri che difficilmente ne escono?

Leggendo alcuni autori in materia di camosci è possibile farsene un'idea. Per quanto riguarda la letteratura specializzata poi, Henry – Frédéric Blanc, 1874, nel suo “Le chasseur de chamois”, in merito al tema della frequentazione degli habitat da parte del camoscio, ebbe a scrivere: “Ciò che al riguardo del camoscio è stato descritto nel modo peggiore è il suo habitat. Se si dovesse credere alle dichiarazioni dei cacciatori “da salotto”, questo animale frequenterebbe senza tregua non soltanto i picchi nudi e inaccessibili, ma anche le nevi eterne e perfino i ghiacciai. Nulla di più inesatto… esso abita dunque un po' dappertutto…. ed è dunque nel bosco che, durante la calda stagione estiva, ne troverete sempre un numero maggiore. Esso vi trova il suo cibo e la sua sicurezza. La regione di Taillefer (nel Delfinato), a partire dai seicento metri, è abitata sicuramente da un numero di camosci considerevole, sicuramente maggiore di quello delle zone rocciose collegate e coperte d'erba. Il fatto è lungi da costituire un'eccezione, ne è piuttosto la regola” Anche da noi, per quanto riguarda la frequentazione degli habitat, non è diverso da quanto sostiene Blanc, anche se la maggior parte dei cacciatori continua però ad associare la presenza del camoscio solo agli pascoli e alle rocce più elevate. Simile opinione è largamente diffusa anche fuori della schiera dei cacciatori di ungulati, come tra i frequentatori occasionali della montagna, ingannati forse dalla facilità di avvistare i camosci in zone impervie, o dalla visione di alcuni documentari che per ragioni tecniche e facilità di ripresa mostrano i camosci solo negli spazi aperti, proponendo così modelli comportamentali del camoscio che non sempre corrispondono alla verità.

La motivazione della presenza del camoscio nel bosco e nella foresta in generale, va invece interpretata come un fatto naturale in riferimento alla specie e alle sue esigenze ecologiche. Infatti, contrariamente a quanto alcune scuole di pensiero sostengono, il suo insediamento nel bosco non deriva in modo esclusivo da modifiche importanti del suo habitat principe, che è, e resta, tipicamente alpino. Recenti studi hanno dimostrato come i camosci abitassero i boschi delle Alpi e delle Prealpi Orobie in misura maggiore di quanto rileviamo oggi, ancor prima della trasformazione del piano montano in paesaggio coltivato ad opera 'uomo. Ancor oggi i camosci colonizzano in modo spontaneo i boschi di montagna, nella misura in cui l'uomo glielo permette ovviamente, ma in modo indipendente dalla trasformazione degli habitat.

Questo fenomeno della colonizzazione del bosco è sicuramente in relazione a diversi fattori, di cui solo alcuni sono stati finora dimostrati. Ad esempio:

1. Assenza dei grandi predatori quali:
orso, e lupo, che prevalentemente operavano nella foresta.

1. Disturbo conseguente alle attività umane da reddito, la e il turismo.
2. Competizione alimentare e spaziale con pecore e capre.
3. Frammentazione dei pascoli con recupero degli spazi da parte del bosco.

Nel sottolineare come la presenza e lo sviluppo delle popolazioni di camoscio nella nostra Valle Brembana nell'ultimo secolo sia stata la storia di un vero successo, nella vicenda non possiamo che riconoscere al bosco un ruolo di primaria importanza. Alla fine della seconda guerra mondiale la popolazione di questa specie era certamente ridotta al lumicino a causa di una caccia sfrenata, soprattutto in relazione alle difficoltà economiche del momento. Prima ancora che venissero adottate leggi di tutela per proteggere i pochi camosci scampati, già i cacciatori avevano individuato le prime zone idonee alla loro protezione, e in queste aree la superficie coperta dal bosco era molto importante. Gli sforzi di allora, intrapresi per proteggere la specie, hanno permesso un costante incremento dei suoi effettivi fino ad oggi, e l'obiettivo iniziale di salvaguardia, per il pericolo di scomparsa come già avvenne per altre specie, è stato meritoriamente raggiunto. Oggi invece, risolto il problema iniziale della salvaguardia della specie, si presenta il problema del contenimento numerico della stessa, alla ricerca di una qualità accettabile in relazione agli spazi disponibili, dove anche il bosco, non più considerato come ambiente-rifugio, dovrà essere costantemente monitorato per comprenderne il limite di sopportabilità dei danni da brucatura, valore che se trascurato ne potrebbe pregiudicare la naturale rigenerazione, con ovvie ripercussioni sulle popolazioni che dal bosco traggono il loro sostentamento.

Alcuni studiosi di indubbio valore scientifico hanno già affrontato questo dilemma. È il caso di Wolfang Schröder, che nella sua opera “Gams und Gebirgswald” del 1982, così scriveva: “Il camoscio delle foreste è una comparsa recente provocata da due fattori; da una parte la ridotta predazione causata dalla scomparsa del lupo e della lince, e dall'altra una caccia moderata alla specie che favorisce gli spostamenti e la formazione di nuove colonie”. Lo stesso autore poi propone “l'abbattimento di tutti i camosci al di sotto del limite altimetrico di 1300 metri”. Nella proposta di abbattimento di tutti i camosci che abitualmente stazionano a quote relativamente basse, Schröder certamente ipotizza questo intervento, peraltro singolarmente radicale, come soluzione in riferimento ai danni causati al bosco, ben sapendo che gli stessi, in linea generale, sono attribuibili a tutti gli ungulati nella misura della loro densità, del fabbisogno alimentare relativo alla specie e alla durata annuale della permanenza in questo ambiente. Per quanto riguarda il camoscio però, il problema dei danni da morso risulta mal tollerato in quanto la sua è una presenza recente, e rimane il dubbio sulla legittimità della sua presenza nel bosco e sulle densità numeriche che questo ungulato, dalle abitudini tradizionalmente gregarie, presenta. Se ancora non bastasse, il problema viene ancor più evidenziato dall'impossibilità pratica di gestire correttamente questo selvatico in un ambiente certamente non consueto, dove la specie diventa forzatamente elusiva ai conteggi e le esperienze nostrane ancora non si sono cimentate in misura sufficiente con censimenti e prelievi.

Il Camoscio

Nel nostro caso il bosco ha avuto un ruolo fondamentale nell'iniziale protezione del camoscio; non poteva essere altrimenti, vista la proporzione che il bosco raggiunge nelle zone frequentate dalla specie, ed è estremamente importante che si cominci ad avere un occhio di riguardo verso la “salute” del bosco. Se fino ad ora la tutela era intesa come salvaguardia delle specie animali in pericolo, è legittimo oggi pensare anche ad una tutela dell'ambiente idoneo a quella specie?

La risposta non può che essere positiva. Eppure ancora oggi, nonostante un cambiamento radicale delle filosofie che hanno generato i movimenti di protezione della natura, tutelare qualcosa è spesso inteso come intervenire a senso unico, proibizionista; ne sono un esempio i parchi e le aree protette in generale, nate per soddisfare le esigenze di protezione di alcune specie animali in difficoltà per i motivi più diversi, spesso con il risultato che le specie oggetto di protezione, aumentate a dismisura, si trasformano poi inevitabilmente in distruttrici dell'habitat che dovrebbe garantire il loro stesso sostentamento. Una sorta di implosione insomma, un cane che si mangia la coda! Come considerare allora la presenza del camoscio nel bosco, in un contesto però più ampio, dove la protezione della specie è necessariamente in subordine alla salute e al rinnovamento arboreo?

Certamente in modo positivo. Da noi attualmente le condizioni sia del bosco che delle popolazioni di camoscio non presentano condizioni di stress tale da suggerire l'abbattimento in massa di animali sotto quote altimetriche considerate “critiche” come proponeva Schröber. Ora, in ultima analisi e per ritornare ai dubbi iniziali, possiamo chiederci: è accettabile la presenza del camoscio nel bosco? Sicuramente i pareri tra i nostri cacciatori rimarranno discordanti, legati soprattutto alla difficoltà della gestione di questo ungulato in quell'habitat e al fastidio che la caccia al camoscio nel bosco comporta. Ma alla fine l'importante, per tutti noi, è che “ci siano camosci” e che continuino ad essere correttamente gestiti!

Luigi Capitanio – www.comprensorioalpinovb.it