Vecchio di BlelloOggi mi mostra come si distilla la grappa. Non si potrebbe fare, ma lui la fa per sé e per pochi amici, non la vende, la beve la sera quando fa freddo, nel caffè che bolle continuamente in un pentolino sulla stufa. Qualche settimana fa aveva raccolto le pere nel campo grande, quelle piccole pere verdi, dure e sempre un po' toccate, frutti di che non compaiono sulle bancarelle dei mercati, e che gli intenditori chiamano, con un po' di snobismo, pere di vigna. Ma qui da noi, in Val non ci sono vigne.

Frutti dimenticati dall'arroganza 'uomo moderno, che vuole la bellezza a discapito della bontà.

Pipù aveva messo le pere in un bidone, le aveva schiacciate e, dopo qualche giorno, zuccherate, poi le aveva dimenticate. le aveva macerate e rese docili alla mano antica dell'uomo che, oggi, mischiate con acqua di fonte, le ha messe a bollire nell'alambicco: due paioli di rame sovrapposti e saldati in più punti per renderlo adatto alla bisogna.

Pipù li ha sigillati con l'argilla nella giuntura, ma mi racconta che altri in passato lo facevano con la farina. Ha acceso la fiamma sotto l'alambicco, collegato con una bombola a gas e si è inginocchiato per controllare la fiamma (“La grappa deve andare adagio, non vit vit, come fanno certi per fare prima!”) davanti al pentolone di rame come a ringraziare con una muta preghiera profana l'anima dell'inventore del processo di distillazione.

In attesa che le pere bollissero abbiamo parlato di vecchi cibi della montagna, e di gente ormai polvere, della quale è rimasto solamente il ricordo del sorriso. Dopo mezz'ora o forse più, ignara e incurante delle nostre chiacchiere, la miscela di pere ha iniziato a bollire e la grappa ha cominciato a uscire dal piccolo tubo di metallo sul lato del bidone che contiene la serpentina. Il “flem”, che ha circa 90°, sgocciolava lento. I vapori di alcool avevano percorso il primo tratto del tubo di rame, erano entrati nella serpentina immersa nell'acqua corrente e si erano condensati al contatto con il freddo.

La piccola cagna rossa del Pipù, Faina, ingorda di coccole, si disputava la nostra attenzione, slacciando i cordonetti delle scarpe e saltando come una trottola gioiosa, mentre l'uomo dalle mani antiche ci offriva un goccio di nocino fatto da sua madre, morta ormai da almeno 15 anni. Intanto il filo bianco di grappa continuava a scendere nella vecchia pentola. Ho aspettato che “arrivasse l'acqua” prima di salutare il Pipù e i suoi botolini festanti.

Le sue antiche mani hanno mischiato la grappa con il “flem” e un poco di acqua di fonte fatta bollire, poi l'hanno lasciata riposare un giorno, senza nemmeno assaggiarla. La grappa appena distillata è “trobbia”, torbida, così, una volta ripulito per bene l'alambicco dai rimasugli di pere, Pipù l'ha distillata di nuovo, lentamente, per renderla chiara e cristallina, come il suo sguardo di montanaro, come l'aria del mattino. Sapevo che presto avrei rivisto Pipù, con il suo passo ciondolante da vecchio orso, con quei modi tutti francesi di parlare il . Mi aspettavo di vederlo arrivare con una bottiglia del suo nettare, che distilla solo per gli amici, e pensavo al rituale che sempre si ripete in queste circostanze: io gli avrei chiesto se era per me e lui si sarebbe tolto il cappello e, con un sorriso, mi avrebbe risposto: “Oui!”.

Invece le cose andarono in modo diverso. Pipù venne verso di me e, con fare imbarazzato, mi disse che aveva saputo che io “so di erbe”, e voleva sapere se potevo aiutarlo a trovare la ruta.

Aveva chiesto a me! Proprio a me! Non potevo deluderlo, ma non sapevo proprio dove andare a raccogliere la ruta in . Gli dissi che dovevo partire e che al mio ritorno gli avrei portato la ruta. Pensai di andarne a comperare un vasetto al Consorzio Agrario, ma non ne avevano, e nemmeno nella grande serra a valle, né al negozio di fiori, e nemmeno al supermercato. La ruta stava divenendo un incubo.

Dovevo partire davvero: avrei accompagnato mio padre in Slovenia a trovare alcuni suoi amici, e decisi che avrei affrontato il problema al ritorno. Mentre mio padre stava seduto sull'aia di Orlando a parlare, a fumare e a bere vino terrano, decisi di andare a fare un giro nei boschi e mi incamminai verso un terreno arido e pieno di doline, ma infiammato dalle piante del cappero selvatico in fiore. Il Carso è una terra meravigliosa, e m'incuriosiva scoprire che tipi di erbe crescessero così vicine al . Vidi moltissime piante di timo, ginestrino, altre che conoscevo di “faccia” per averle viste raffigurate sui libri, ma delle quali ignoravo il nome. E mentre girovagavo con il naso puntato verso terra come un segugio, ecco, davanti a me proprio lei: la ruta! Cresce sui terreni sassosi, e quello era proprio il suo habitat naturale. Ringraziai la Madre Terra e sorrisi: la mia reputazione era salva, e la grappa del Pipù anche.

Ne raccolsi alcune pianticelle con le radici, le avvolsi in un fazzoletto e le bagnai con un po' d'acqua che mi portavo dietro in una bottiglia. Quando arrivai a casa la ruta era ancora fresca, nonostante avesse compiuto un viaggio di 500 chilometri. Ne sistemai alcune piantine nell'orto delle piante officinali e mi incamminai verso casa del Pipù con il mazzolino in mano. Vedendomi passare alcune donne mi chiesero cosa stessi portando, e quando videro la ruta si scambiarono una occhiata sconcertata. Mi chiesero dove l'avessi raccolta, poiché qui da noi non ne avevano mai vista. Sorrisi maliziosamente e risposi loro che era un segreto da strega…

Laura Rangoni